Vince il male

di Manuela Mazzi

[Questa recensione è apparsa nel blog di Manuela Mazzi il 15 gennaio 2021. Leggi l’articolo originale].

Le ripetizioni atteso e quasi insperato romanzo di Giulio Mozzi è uscito ieri nelle librerie per l’editore Marsilio. Un libro pericoloso, un libro che mi ha fatto un sacco di male. Da qui, la bravura autoriale. Se uno scrittore può fare con le parole ciò che ha fatto Giulio Mozzi con me lettrice, deve per forza essere bravo, considerata la mia dichiarata incapacità di «emozionarmi» con la letteratura. E io glielo riconosco: ha scritto un romanzo pazzesco a pluriinneschi ritardati fattualmente devastanti. Questo romanzo è il male.

Non lo rileggerò.

La trama

C’è un uomo. Mario. Che è più uomini. Che è più voci. Che ha un suo modo di guardare e vedere la realtà e in particolare un suo rapporto conflittuale con i ricordi: Mario sostituisce la realtà con la finzione; trasforma finzioni in realtà, o possibili realtà. È un uomo che cerca di ricostruirsi attraverso il recupero di pezzi di storia e insegue relazioni emotive senza pathos, mai da protagonista, sempre da passivo. È un uomo con più vite, dissociato, spaesato. Un uomo che vive secondo ciò che gli viene fatto vivere. Un ospite del mondo. Un osservatore ed esecutore delle volontà altrui. Un cronista che riporta la sua partecipazione senza assumersi la responsabilità di farvi parte. Un narratore inaffidabile. È un uomo curioso. Che cerca di capire, mai giudicante. Un uomo molto dolce. Attento a non far male di sua iniziativa. Accudente. Altruista. A cui affidarsi. Gentile ed educato. Servizievole. Disponibile. Tanto. Ma soprattutto un uomo profondamente affascinato dal male, quello prodotto attorno a lui, e un uomo di così poca volontà da non riuscire né a rendersene conto né a ribellarsi a quell’attrazione che rimuove giorno dopo giorno. Un uomo che proprio per questo si troverà per tutto il romanzo confrontato con il male a più riprese, dal male della perdita, al male delinquenziale, a quello militaresco, sino alla totale perversione sessuale, e alla violenza estrema che qui sarà mostrata in tutta la sua carnalità.

Come accettare quella parte di sé che potrebbe farlo fuori, rimanendo nella realtà? Ma che cosa è vero? Sono veri i ricordi?, o sono falsi ricordi, ricostruzioni di storie, profumi… le fotografie, forse esistono solo le fotografie, anche se non combaciano con la memoria.

Oltre la trama

Mario ha il pallino della dissociazione e sovrapposizione del reale con la finzione, l’ho detto. Modifica pezzi di vita, forse per incertezza del ricordo reale forse perché una mente che fatica ad accettare parti di sé le rimuove e le reinventa. Di certo fa gioco alla dichiarazione poetica dell’autore, come dicesse: “Io scrivo di verità false e invenzioni vere, come se avessi vissuto tutto e tutto forse ho vissuto, anzi certamente, certo come il fatto che nulla di ciò che ho vissuto è mai stato reale”.

Non ha, questo romanzo, un dispositivo drammatico, né ha davvero un arco narrativo: qui non si avanza orizzontalmente, ma verticalmente si scende, fino agli inferi.

I temi che fanno da sistema di immagini: perdita, assenza, dimenticanza, abbandono (di memoria, di testa, di ragione, di controllo, di realtà, di persona, di coraggio, dei ricordi, di affetto, di personalità, di buon senso). Lui che non si percepisce, le foto di coloro che non sono più in vita, i parenti che non sono lì, i luoghi dove non è più tornato, la casa come un guscio vuoto, la mancanza della reale memoria di Petrarca, l’odore di bosso cancellato, e prima “inventato”, i mattoni senza memoria, la gente perduta senza tracce; la percezione parcellare del tempo, gli assenti dalle antologie, e vogliamo parlare della citazione di Dorian Gray? In merito alla percezione di sé, al tempo, al ricordo, alla scomparsa; è un’altra forma di dissociazione e di dichiarazione artistica che vive la finzione e non distingue la realtà, ma che addirittura può manipolarla…

È un romanzo a strati: man mano che si “sfoglia” si va più a fondo, si entra sempre più nelle relazioni, nei personaggi, fino a giungere nel nucleo centrale. Germe, in questo caso, del male.

I testi che lo compongono risultano essere coesi, nonostante le molti voci (poco ho amata la prima che a fronte di una bella apertura nei contenuti, la scelta della forma getta subito in confusione a causa di un incastro di periodi lunghi e incasinati da incisi: vi rassicuro sul fatto che poi non si ripresenta, anzi ogni voce prende in fondo la forma della storia narrata; da qui il labirinto di bosso coincide con il labirinto degli incisi); si intuisce che è fatto tutto della stessa materia, molto diversa rispetto alla versione precedente non per contenuto ma come accento sul tema di fondo. È di fatto potente e penetrante, in questa versione, il male più della perdita, e vanta una grande tensione narrativa.

Come altri, ho avuto, infatti, il privilegio di poter leggere questo romanzo prima della sua uscita, e l’ho fatto un paio di volte, ottenendo uno straniamento come quelli prodotti dalle ripetizioni mostrate nel libro stesso: le “vicende” sono rimaste quelle, si potrebbe dire da ventitré anni a questa parte (così i tempi di gestazione delle 368 pagine), ma la verità in esse contenuta è totalmente diversa. La prima volta ero entusiasta, aveva prodotto un libro manifesto, qualcosa che riconoscevo come suo. Unico. La seconda volta, davanti alle stesse scene, contaminate più che modificate, ho provato un male fisico. Non solo un’indignazione. Sarà per una mia sensibilità. E di fatto, ci ho messo tre giorni per riprendermi dalle oscenità che si trovano narrate in queste pagine, e tutt’oggi considero questo romanzo un libro osceno. Da far venire la nausea. Da portare un lettore a volerlo bruciare, quasi in un gesto di purificazione.

Giulio Mozzi è un autore che genera questo tipo di reazioni, un certo spaesamento (sottile e lacerante a volte), ma mi viene da dire che non si è “mai” venduto alla violenza; e non significa che non sia “violento” quello che scrive, basti pensare ad Amore (racconto contenuto nella raccolta Il male naturale) ma anche al Bambino morto (dalla raccolta La felicità terrena). Intendo dire che non mi pare abbia mai avuto bisogno di prendere a calci il suo lettore, è uno dei pochi che sa sfregiarlo senza mettergli le mani addosso. Non usa clave ma bisturi. Eppure questo romanzo contiene alcune scene soprattutto di perversione sessuale che – all’inizio – mi pareva fossero la causa del male che il libro ha potere di produrre, riproducendolo. Ammetto di essere stata tentata più volte di gettare lo scartafaccio nel camino. Ma non l’ho fatto. Avrei potuto smettere di leggere. E invece l’ho letto fino all’ultima parola. Perché? Credo proprio a causa della scrittura di Giulio, perché mi sono fidata, affidata. Questo romanzo è in estrema sintesi un testo aggressivo: potente e terribile. Ma durante la lettura scorrono tra le righe sentimenti anche dolcissimi. Persino in alcune scene di sesso, come la prima tra Mario e Viola. E ‘sta cosa manda ai matti. La convivenza di queste due contrapposizioni, che si manifesta anche nella persistente ambiguità del protagonista, spiazza. E spaesa. Ambiguità resa tale dalla scrittura più che dai contenuti. Così torno all’inizio di questo paragrafo: in fondo, questo romanzo non colpisce davvero con la violenza, come pensavo all’inizio, ma con la dolcezza: se il lettore si affida alla dolcezza di Mario, e poi Mario si mostra non per un altro, ma esattamente per quello che è, anche, allora noi perdiamo ogni difesa. Ha usato il bisturi, di nuovo, non la clava (al di là delle apparenze).

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