“Una scrittura-carne”

di Paolo Nelli

[Questa recensione mi è stata inviata privatamente, con permesso di pubblicazione, dall’amico Paolo Nelli].

Nella seconda metà anni Novanta, dopo essere andato a conoscerlo a una presentazione di La felicitàterrena, mi incontravo spesso con Giulio Mozzi a parlare di scrittura. Un giorno mi disse che stava provando a scrivere un romanzo e mi diede le pagine che aveva scritto. In quelle pagine si arrivava presto a scene estreme di sesso perverso, cani sgozzati. Ricordo che gli dissi che non erano pagine facili da leggere.

La scrittura dei racconti di Mozzi, forse ancor più in Questo è il giardino, era scrittura-carne. Scrittura tangibile. In questa scrittura piana e di totale concretezza, i suoi racconti si sviluppavano esaurendo. Nulla si poteva aggiungere. Nel romanzo Le ripetizioni la scrittura viene svuotata da ogni forma di decorazione stilistica e, in quanto tale, stilistica all’eccesso. Una scrittura coerente fino al paradigma tanto da diventare ipnotica e fare perdere il senso della durata. Per giocare alle analogie, qualcosa che rimanda a una Sequenza di Berio, fatta però di parole e frasi. In Le ripetizioni assistiamo all’apice di connubio scrittura e contenuto. Si assimilano, si specchiano. Il protagonista del romanzo, Mario, è un uomo svuotato. Nella scrittura non c’è alcun accorgimento da effetto seppia cinematografico che mi indichi, a me lettore, una dimensione differente tra realtà e immaginazione, tra interiorità e esteriorità.

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Vita di Mario (raccontata da lui medesimo)

di Franco Foschi

[Questa recensione mi è stata inviata privatamente, con permesso di pubblicazione, dall’amico Franco Foschi].

Chi l’ha detto che le vite, tutte le vite, non possano essere raccontate? Gli storici forse, che campano della frustrazione di non poter scrivere o descrivere tutto quel che è successo e a chi. Ma il narratore. Il narratore ha delle possibilità sconfinate, epperò è solo il narratore bravo che sa esplorarle al meglio. Che sa imbricarle l’una nell’altra, che le moltiplica da un nonnulla, che ci infioretta sopra quel che gli pare – ecco l’infinita, e un po’ spaventosa, libertà di scrivere.

Di storie, Mozzi, ne ha a bizzeffe, e sa come cucinarle. Ci ricorda che la Storia è fatta di storie, e che abbiamo sempre, incessantemente, bisogno di sentirle raccontare. Il problema è come mischiarle e farne un unicum che possa venire definito romanzo.

Come lo ha risolto, Mozzi, questo problema?

Si inizia con una evidente dichiarazione d’intenti: ventuno pagine dense, compatte, senza respiro, con la memoria come ospite invadente e che ti immobilizza. A dire ehi, amico, non credere di trovarti a scorrazzare dentro un romanzo per educande, o fatuo, leggiadro e infine rassicurante: na-na, qui ci si tormenta se necessario, si lambiscono i territori della psichiatria, e si da fastidio, non si rinuncia al grigio e al nero se necessario, non si indugia sul particolare ma si preferisce guardare direttamente giù nell’immensità dell’abisso, se necessario. Del resto Mozzi, nei suoi tanti anni di poca narrativa, ci ha introdotti a fondo ne il male naturale (il titolo è suo), per cui siamo preparati a una visione cupa, ancora una volta se necessario.

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“Il mio scopo è: far arrivare chi legge fino in fondo alla storia”

Claudio Laudani, Discorso attorno a un sentimento nascente

[Questa intervista a Giulio Mozzi, condotta da Elisabetta Michielin, è apparsa il 2 febbraio 2021 nella rivista PulpLibri. Vedi l’articolo originale].

Cominciamo dall’oggetto: l’immagine di copertina mi sfugge completamente. Perché il quadro [Discorso attorno a un sentimento nascente, di Claudio Laudani, riprodotto qui sopra] del Grande Artista Sconosciuto (Gas, uno dei personaggi del libro) che peraltro è, secondo le tue parole, scritte in un post sulla genesi del romanzo, una delle due visioni che ti hanno accompagnato nella composizione e stesura del libro per ben 23 anni, non compare nella copertina e compare all’interno in un mortificante b/n?

Ti dirò: per molto tempo ho pensato al quadro di Claudio Laudani Discorso attorno a un sentimento nascente come all’unica immagine possibile per la copertina del romanzo. Addirittura, nel punto del testo in cui arrivavo a nominare il quadro c’era un inciso: “(che vedete riprodotto nella copertina di questo libro”). Mi divertiva, confesso, il gioco sul “dentro” e il “fuori” del libro. Ma poi accaddero tre cose. Uno: l’editore trovò quel quadro poco adatto alla copertina, per motivi squisitamente grafici: e la copertina, si sa, è territorio dell’editore. Due: mi ricordai di un passaggio del primo romanzo di Daniele Del Giudice, Lo stadio di Wimbledon, nel capitolo cinque, dove il protagonista-narratore (che nei capitoli precedenti si è addormentato in vari luoghi) dice: “Più tardi apro un romanzo pieno di puntini di sospensione tra una parola e l’altra; ogni tanto quei puntini sono un vuoto allo stomaco, come superando una cunetta in macchina. Ad uno di quei dossi non torno più giù, e per la prima volta in questo libro mi addormento anche in un letto”; e mi ricordai che quel “per la prima volta in questo libro” mi aveva infastidito, come una leziosità. Tre: mi interrogai – forse per la prima volta seriamente, essendo ormai in vista della pubblicazione – sulla natura precisa della relazione tra alcuni personaggi del romanzo e le persone reali dei quali tali personaggi sono, più o meno manifestamente, trasfigurazioni. Queste tre cosette mi persuasero che il quadro doveva stare dentro al romanzo, non fuori; e dopo qualche tentativo decisi che la posizione giusta era quella, per così dire, dell’esergo. Quanto al bianco e nero, allargo le braccia: non me la sono sentita di chiedere all’editore una pagina a colori.

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“La lingua di Mozzi penetra, scortica, fa un male terribile”

di Davide Turrini e Ilaria Mauri

[Questo articolo è apparso ne Il fatto quotidiano il 7 febbraio 2021. Leggi l’originale].

Un tizio di nome Mario. Un 17 giugno che si ripresenta sfuggente e ostinato ogni poche pagine del racconto. Una Padova zeppa e brulicante fondaco (ma anche Roma e Firenze), e i lunghi, articolati stralci di sensazioni, azioni, dialoghi accaduti nel passato che riemergono tra reale e immaginario alla mente del protagonista. Le ripetizioni di Giulio Mozzi (Marsilio) è romanzo scandaglio, inquieto, voluttuoso, e perfino sadicamente violento con un “personaggio-io” autobiograficamente proustiano. Torsione letteraria ardita, finemente calibrata, viaggio impossibile al termine dell’inconscio, in bilico per una trentina di pagine sull’autocompiacimento formale e poi immersa in una ipnotizzante manipolazione psicologica del lettore. I capitoli si dividono tra personaggi (spesso ex fidanzate e compagne di Mario) e temi (le fototessere, i viaggi in treno, ecc… di Mario) che contengono fili carsici ricorrenti del protagonista come la sessualità, la fotografia, i libri. Nulla accade nell’esistenza di Mario che abbia un vero senso, una direzione narrativa classica, un movimento in avanti nel tempo. Tutto è fagocitato nella statizzazione, ça va sans dire, e del ripetersi del possibile ricordo. L’intelaiatura intermittente (personaggi e temi hanno una numerazione progressiva e rimescolata) fa sprigionare così il desiderio, l’(an)affettività pulsante, oscura, vivida di Mario (e coprotagoniste donne). Pagina dopo pagina il romanzo va oltre l’apparente disegno grottesco (l’intermezzo sublime sul generale Cadorna) a favore dello stagliarsi graduale di un’autoanalisi urticante, angosciante, senza appello. Divagazioni su divagazioni, subordinate su subordinate e all’improvviso scene fulminanti tra sedute di bdsm e doppie vite taciute senza lasciare appigli, la lingua di Mozzi penetra, scortica, fa un male terribile. “L’importante non è la letteratura, l’importante è la vita – e il coraggio”. Voto (straniante): 8

“Volevo scrivere un romanzo impeccabile”

di Giulio Mozzi

[Questo articolo è apparso in Letteratitudine il 3 febbraio 2021. Leggi l’originale].

Le ripetizioni è un romanzo ambizioso. La frase che ho avuta in testa per quasi due anni, diciamo tra l’autunno del 2018 – quando sono stato spinto da Greta Bertella a riprendere in mano certe vecchie carte – e il 30 luglio del 2020 – quando ho consegnato all’editore il romanzo finito – è: «Voglio fare un romanzo impeccabile». Mettetevi nei miei panni. Sono nato nel 1960. Come scrittore ho dato il meglio di me – per comune giudizio – con le raccolte di racconti che ho pubblicate negli anni Novanta: Questo è il giardino, 1993, La felicità terrena, 1996, Il male naturale, 1998; ai quali si può aggiungere, ma il giudizio comune lo mette in secondo piano, Fiction, 2001. Negli anni successivi ho pubblicato, con un ritmo sempre più lento, libri sempre più difficili da classificare: dei prosimetri, come Fantasmi e fughe, 1999, e La stanza degli animali, 2010, un poema, Il culto dei morti nell’Italia contemporanea, 2000, e altri libri in versi; una raccolta di novelle brevissime, Sono l’ultimo a scendere, 2009, e un libro e metà strada tra teatro, novella e poesia, Favole del morire, 2015. Inoltre: fin dal 1993 mi sono dato all’insegnamento di quella cosa che viene orribilmente chiamata «scrittura creativa», e che altro non è che la pratica della letteratura; dal 1998 ho lavorato nell’editoria, soprattutto come scout, facendo da levatrice a qualcosa di più di un centinaio di romanzi.

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“Tutto è descritto e raccontato attraverso l’agire del corpo”

di Sandro Campani

[Sandro Campani ha pubblicato questa conversazione con il gatto Luigi, suo convivente, nella propria pagina Facebook, nei giorni 31 gennaio 2021, 1° febbraio 2021, 2 febbraio 2021, 3 febbraio 2021. Le immagini sono di Sandro Campani].

– Ti senti osservato, Luigi?
– Rifletto.
– Lo vedo.
– Sai che nella sua nota all’anteprima uscita su Satisfiction, Edoardo Zambelli dice che Mario, il protagonista de Le ripetizioni di Giulio Mozzi (Marsilio, 2021) è un uomo che rincorre se stesso? A me questa immagine – che, conoscendo Zambelli, potrebbe anche non essere un caso – ha fatto venire in mente l’agente Cooper che rincorre se stesso nella stanza rossa di Twin Peaks, dopo essersi, diciamo così, scisso in due: ci sono due Cooper, entrambi impomatati, entrambi in completo nero elegante, identici in tutto ma, per semplificare, uno ha assunto in sé il male assoluto, l’altro è buono e tenta di sfuggirgli. I due Cooper si rincorrono, passando e ripassando per le stesse stanze divise da tende, per lo stesso corridoio – e le stanze sono ogni volta le stesse, eppure sono diverse: contengono oggetti diversi, personaggi diversi; ciò che era solido è liquido, ciò che era destro è mancino; tutto è simile a se stesso, eppure differente; e alla fine, un agente Cooper raggiunge l’altro.
– Vuoi mo’ dire, che non infili subito Lynch da qualche parte?

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“Un capolavoro che narra le vite che non evolvono”

di Tina Guiducci

[Questo articolo è apparso nella Gazzetta di Mantova il 29 gennaio 2021. L’articolo in pdf].

I personaggi del romanzo hanno straordinarie capacità ma volutamente si opacizzano come pure i fatti narrati tornano a un binario morto. Giulio Mozzi arriva a pubblicare il suo primo romanzo dopo 23 anni di lavoro, numerose raccolte di racconti, una brillante carriera di consulente editoriale, almeno un paio di generazioni di aspiranti scrittori indirizzati verso la loro passione. Cosa aspettarsi, quindi? Né più né meno un capolavoro, e Le ripetizioni lo sono. La poetica di Mozzi si palesa dalla prima pagina, dove par che dica al lettore: sei un prescelto, preparati a riconoscere citazioni e rimandi dei miei autori più amati, preparati a una storia che comincia molto dopo il primo capitolo, a incontrare personaggi che hanno uno straordinario potenziale (si potrebbe far una collana di romanzi per ciascuno di loro) ma che non evolvono anzi, più ne racconto più si opacizzano, i loro tratti si mescolano; infine troverai un menù così speziato che i vecchi racconti “cannibali”, in cui sangue, sesso, paura e violenza finivano in un gran bollito splatter, qui ritornano e paiono per un attimo di nuovo veri (come ai tempi sembravano).

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