di Paolo Nelli
[Questa recensione mi è stata inviata privatamente, con permesso di pubblicazione, dall’amico Paolo Nelli].
Nella seconda metà anni Novanta, dopo essere andato a conoscerlo a una presentazione di La felicitàterrena, mi incontravo spesso con Giulio Mozzi a parlare di scrittura. Un giorno mi disse che stava provando a scrivere un romanzo e mi diede le pagine che aveva scritto. In quelle pagine si arrivava presto a scene estreme di sesso perverso, cani sgozzati. Ricordo che gli dissi che non erano pagine facili da leggere.
La scrittura dei racconti di Mozzi, forse ancor più in Questo è il giardino, era scrittura-carne. Scrittura tangibile. In questa scrittura piana e di totale concretezza, i suoi racconti si sviluppavano esaurendo. Nulla si poteva aggiungere. Nel romanzo Le ripetizioni la scrittura viene svuotata da ogni forma di decorazione stilistica e, in quanto tale, stilistica all’eccesso. Una scrittura coerente fino al paradigma tanto da diventare ipnotica e fare perdere il senso della durata. Per giocare alle analogie, qualcosa che rimanda a una Sequenza di Berio, fatta però di parole e frasi. In Le ripetizioni assistiamo all’apice di connubio scrittura e contenuto. Si assimilano, si specchiano. Il protagonista del romanzo, Mario, è un uomo svuotato. Nella scrittura non c’è alcun accorgimento da effetto seppia cinematografico che mi indichi, a me lettore, una dimensione differente tra realtà e immaginazione, tra interiorità e esteriorità.