[Valentina Durante ha pubblicato questa recensione nel proprio profilo Facebook il 26 gennaio 2021. Vedi il post originale].
Le ripetizioni è uscito per Marsilio da due sole settimane e già si è guadagnato una sorprendente (ma prevedibile) quantità di recensioni. Il primo romanzo di Giulio Mozzi è stato descritto come un testo frammentario, magmatico, indecidibile (romanzo tout court oppure una cornice di racconti – anzi, “storie”?). Come un’opera dedita a un citazionismo vorace e disinibito, che sconfina dal recinto letterario per abbracciare la musica, la fotografia, la pittura, in una visione estetica (non estetizzante) della vita. Come il tentativo – riuscito – di fare ciò che da un testo di finzione non ci aspetteremmo mai, perché non è ciò che in un testo di finzione cerchiamo: il riproporsi dell’illogicità della vita reale, priva di una linearità causa-effetto e dominata dal caso. Infine e conseguentemente, come la vicenda di un uomo inadatto a decifrare il reale perché è il reale in sé a essere indecifrabile: può solo accostarvisi tramite reperti (gli oggetti trovati, conservati, nascosti, esposti – che siano fotografie oppure lettere), ma soprattutto ripeterlo, in un tentativo instancabile e improduttivo di trovare una dimensione finalmente calzante. Un uomo un po’ simile a quello che Kierkegaard ci presenta nel suo Diario del seduttore:
Nulla di più tormentoso posso immaginare che la pena di un ingegno intrigante che smarrisca il suo filo conduttore; e che nel ridestarsi della coscienza, cercando di uscire dal laberinto, volga tutta l’acutezza del suo cervello contro sé stesso. Inutili gli son le molte uscite dalla sua tana da volpi: quando egli già crede di raggiungere la luce del giorno, si accorge di trovarsi in una nuova entrata, e come una fiera spaurita, nella straziante disperazione che lo incalza, sempre cerca d’uscire e sempre solo entrate ritrova che lo riconducono a lui stesso.
Certo Le ripetizioni è tutto questo (e molto oltre a questo), ma ora che ho letto per la prima volta il testo definitivo, e dopo aver letto per molte volte il testo provvisorio, e dopo aver letto una quantità di interpretazioni e averne prodotte altrettante nella mia testa, la domanda finale che mi pongo è – inevitabilmente – quella più semplice: ma Mozzi, con questo suo primo, travagliatissimo romanzo, che storia ha voluto raccontarci?
Se porsi la domanda è semplice, non altrettanto semplice è darvi una risposta. Mi sono trovata anch’io, come Mario, come l’uomo di Kierkegaard, dentro un labirinto; per uscire dovevo poterlo guardare da fuori pur nella condizione di restarci dentro. Avevo bisogno, cioè, di una mappa.
Come ogni buon pirata potrebbe testimoniare, le mappe hanno spesso il difetto di essere nascoste. Mi sono messa a cercare nel luogo più ovvio: il baule di Mozzi, i testi che hanno preceduto il romanzo, e particolarmente quelli antologizzati nella raccolta uscita per Laurana un paio di mesi fa: Un mucchio di bugie. La possiamo considerare, questa raccolta, una sorta di preambolo al romanzo? Possiamo. Curioso, però, che in questo preambolo siano assenti proprio i due racconti de Il male naturale dove più verrebbe spontaneo rintracciare un legame con Le ripetizioni: Super nivem e Un male personale. Lì infatti compaiono i personaggi di Santiago, Bianca e Lucia. Ma non è più così curioso se pensiamo che questo legame – pur presente – è superficiale e non strutturale: una falsa pista. La pista vera – ben dissimulata, come ogni bravo pirata comanderebbe – è contenuta in un racconto che direi insospettabile, perché mai viene citato: Morte di Richesse.
In Un mucchio di bugie, Mozzi ce lo introduce così:
Da Il male naturale, Mondadori 1998, poi Laurana 2011. Questo racconto apre il mio libro più discusso, più brutale, più magmatico, più informe. Ma questo racconto, di ambientazione più o meno secentesca […] è una specie di merletto. Lo misi lì, all’inizio del libro, come per dire: guardate che, a prescindere da quel che troverete nel séguito del libro, io sono ancora capace di scrivere una cosa ordinata, elegante, ben fatta, e soprattutto: finzionale.
Ora, se Dio sta nei dettagli, forse la chiave interpretativa dei romanzi sta nei merletti. Soprattutto se il merletto è ambientato nel Seicento – secolo dove Mozzi più di qualche volta ha dichiarato di collocarsi idealmente (basti la sua affinità elettiva con il poeta Ciro di Pers, 1599-1663) – e soprattutto se il merletto in questione è dichiaratamente finzionale: e la finzione è sempre il posto più idoneo dove cercare qualcosa di vero.
Morte di Richesse lo possiamo riassumere in una frase: la rappresentazione del buon servo. Anzi: del servo buono e felice. Chi è costui?
È, anzitutto, un uomo dalle capacità limitate («Qui cominciò una specie di disputa teologica che non vi so riferire perché supera le mie capacità»). Un uomo che professa la sua inutilità accostandola a un attivismo che subito la smentisce: «D’altra parte non faccio niente neanch’io, mando avanti la casa e faccio accomodare i visitatori. Siamo tutti inutili, inefficaci, vorrei dire ridicoli» – dove echeggia fortissima l’influenza del Prufrock eliotiano:
Io sono un cortigiano, sono uno
Utile forse a ingrossare un corteo, a dar l’avvio a una scena o due,
Ad avvisare il principe; uno strumento facile, di certo,
Deferente, felice di mostrarsi utile,
Prudente, cauto, meticoloso;
Pieno di nobili sentenze, ma un po’ ottuso;
Talvolta, in verità, quasi ridicolo –
E quasi, a volte, il Buffone.
Un uomo che si compiace della relazione privilegiata con il suo padrone, pur lamentandone la fatica («Nelle ultime settimane siamo stati quasi sempre soli, qui dentro, Richesse e io. Salivano le serve per le pulizie, alla mattina, e poi basta. Sapete, credo fossero anni che non restavo da solo con Richesse. E, devo dire, non è stato facile»). Ma che non manca di puntualizzare, di questa relazione, l’esclusività: lui è insostituibile perché è il servitore; gli altri, non servono («Richesse è nella sua stanza ma non posso farvi entrare adesso, ci sono i medici. Credo che non staranno dentro a lungo. Hanno finito il loro lavoro e non servono più. Hanno fatto quello che potevano, credo»). Il servo buono e felice rivela una natura controllante attraverso la sottomissione, per quanto dissimulata da autocorrezioni continue («Mi mandarono a chiamare in dicembre e da quel dicembre questa casa è la mia casa, chiedo scusa: io sono di questa casa»). Ma soprattutto, il servo buono e felice è, a differenza del padrone, un vittorioso, perché lui solo ha la facoltà di provare verso il padrone un sentimento di affetto libero e autentico, giacché il servirlo è comunque un suo dovere.
Ecco, io lo lavavo come potevo, sollevandolo tra le coperte, senza scoprirlo del tutto per non fargli prendere freddo, rigirandolo più delicatamente che potevo. E quando gli sollevavo la schiena, gli cadevano le braccia. Neanche la testa riusciva a tenere su. Io cercavo di essere più delicato che potevo, e intanto non potevo fare a meno di piangere. E così, quando lo ho appoggiato e ricoperto bene di nuovo, lui se n’è accorto. E mi ha detto solo: “Grazie, Chastel. Sei stato molto delicato”. E io ho pensato, in quel momento, mentre la sua voce così scarsa mi faceva piangere di nuovo, ho pensato che non mi stava ringraziando perché lo avevo lavato, ma che mi stava ringraziando perché avevo pianto. Lavarlo, voglio dire, era il mio dovere. Io sono un servitore. Ma Richesse sa che io gli voglio bene e che queste settimane sono dolorose anche per me.
Anche Richesse ha dell’affetto per il suo servitore, però è un sentimento intorbidato da una qualche forma di possibile gratitudine, o anche dallo stupore per la purissima sottomissione del servo – una sottomissione morale e sentimentale, non solo materiale. Quando Richesse si trova ad assistere Chastel durante la malattia, il suo ci appare un atto dovuto: l’atto pietoso di un uomo giusto verso il servo che lo ha sempre servito con rispetto e abnegazione. Invece le lacrime di Chastel non sono dovute, sono le lacrime di un sentimento che non vuole nulla in cambio; e quando sai che il tuo sentimento non richiede contropartita, la sensazione di dominio che avverti può essere fortissima. D’un tratto, non sei più dipendente da colui che ami.
Il servo buono e felice è dunque un servo dominatore.
Nel romanzo Le ripetizioni, la felicità del servo è un’ambizione che corre sotterraneamente lungo tutto il testo. Mario è – sa di esserlo – il servo di Santiago:
La terza vita segreta di Mario – tutte e tre le vite di Mario sono segrete, ma la terza è la più segreta perché conosce le altre due – è quella nella quale Mario è il servitore di Santiago. Da quando si conoscono Mario è il servitore di Santiago. Le passioni di Santiago sono la servitù di Mario e l’uccisione dei cani.»
È un servo felice? Non lo è. Il servo felice, semmai, è il professore: «È felice di servire Santiago, perché dopodomani potrà servirlo ancora.
Mario al massimo può provare piacere per ciò che è connaturato al servire, ne assume il vantaggio controllante che gli è dato dall’obbligo: «A Mario piacciono i lavori di servizio e di pazienza, lo aiutano a sentirsi bene nelle situazioni, perciò si è offerto volontario per la contabilità.»
Mario ha ben presente il ruolo dominatore del servo in una relazione retta dall’affetto reciproco, quale è – a es. – la relazione fra i genitori: «Sicuramente c’era una relazione basata sul fatto che il padre doveva essere servito e la madre doveva garantire un servizio, e sicuramente nelle decisioni – soprattutto nelle decisioni di un qualche rilievo, come le spese importanti – era colei che serviva ad avere la parte preminente: non che le fosse riconosciuto esplicitamente un ruolo di comando, d’iniziativa». Ma per quanto riguarda lui, Mario, la servitù è solo qualcosa che patisce, più che come giogo dal quale non riesce a liberarsi, come un legame incompleto che lo incatena a una quantità di obblighi senza procurargli l’unica, fondamentale libertà: quella di provare un sentimento di affetto – il voler bene di Chastel – l’amore disinteressato che eleva il servo sopra il suo padrone. È, quella di Mario, una felicità solo osservata da lontano, raggiunta con fatica e a malapena sfiorata e che subito, al primo tocco, svanisce:
Quando si accorge che la persona che è seduta accanto a lui è Santiago Mario si spaventa, per un momento; non si stupisce, ma si spaventa; poi sente il cuore riempirsi del sentimento che gli suscita a volte Santiago, e che è una sorta di felicità, un desiderio di abbandono; poi pensa che Santiago vorrà punirlo – è partito per Roma senza dirgli niente, ha incontrato Bianca senza dirgli niente, è andato a letto con Bianca senza dirgli niente – e in un attimo il desiderio della futura punizione diventa forte, fortissimo, e le immaginazioni della futura punizione riempiono la mente di Mario.
Quand’è che ripetiamo qualcosa? Banalmente, quando ciò che abbiamo fatto non ci è riuscito bene. Pare a me che nel romanzo di Mozzi il servaggio imperfetto di Mario nei confronti di Santiago sia pietra di paragone per tutte le altre relazioni possibili ma non potute. Le ripetizioni è, a ben considerare, una galleria di personaggi che potrebbero essere tutti padroni di Mario: affettivi, morali, professionali, estetici, corporali. Tanti, potenziali Richesse. Ma nessuno di loro riesce a essere Richesse, perché Mario non riesce a essere Chastel: ha un ondeggiamento per poi subito ritrarsi, come se apparisse un uomo inverosimile – nel provare affetto – prima di tutto a sé stesso. Anche la relazione fra Mario e Bianca (l’unica figura nella quale Santiago riconosca un nemico), è una servitù solo tentata, perché non c’è nessuna felicità e nessuna elevazione. Ci sono tentativi di affetto, volontà di affetto, immaginazioni di affetto e instancabili auto-prescrizioni di affetto, ma mai un affetto vero:
“Sono incinta”.
“Che cosa vuoi che faccia?”
“Niente, che mi aiuti materialmente se ne avrò bisogno”.
“Ti aiuterò”.
“Mi faccio viva io, ti dico che cosa mi serve”.
“Sì”.
Provate ora a rileggere il passo in cui Chastel lava il suo padrone sul letto di morte e a confrontarlo con le scene di sesso tra Mario e Santiago: troverete, nonostante una gestualità per certi versi simile, tutta la portata del fallimento nella relazione per come Mario può solo concepirla. E dunque gli eccessi sessuali di Santiago su Mario (e che Mario asseconda) appaiono, più che una ipostasi della violenza più deteriore e gratuita, l’atto disperato di un uomo che cerca di farsi scuotere da qualcosa per sentirsi risuonare: ma pur nello scuotimento non risuona nulla, non si palesa nulla. Il sentimento, se c’è, è muto o inerte.
Lo ritroviamo, il sentimento, in chiusura del romanzo. Lo troviamo sotto forma di un dipinto, in una scena che è una citazione dichiarata del Dorian Gray di Wilde: quello che l’uomo si nega, viene incubato o racchiuso o palesato dall’opera d’arte.
E allora, ecco, ti dico, a me sembra un quadro bellissimo, ma a parte questo, vedi, questo è un quadro che mi riempie di felicità, perché mi pare che dica che tu, benché sia stato prigioniero per anni e anni, una possibilità di sentimento ce l’hai, ce l’hai perché dalla tua mente, anzi no, non dalla tua mente, dalle tue mani, è venuta fuori questa presenza meravigliosa qui, questa Venere che nasce da acque nere e buie, e viene fuori non in piedi sulla conchiglia, come su un monopattino, ma seduta, un po’ curva, anche, quasi, pare, come se fosse su una carrozzella…
Questa battuta è rivolta da Mario al Gas, il Grande Artista Sconosciuto, ma sospetto che sia rivolta anche da Mario a sé stesso. A questo punto la ferocissima scena finale – La storia della bambina – è già depotenziata; il climax nella violenza è quasi una proclamazione di inadeguatezza: Mario potrà anche sottomettersi alle turpitudini più grandi, ma sarà sempre un autoinganno: come quando si urla sempre più forte una realtà falsa sperando – vanamente – di renderla vera. E Mario lo sa bene ciò che gli manca per essere un servo vero.
A concludere il romanzo c’è una risoluzione in due parole: «Adesso, basta». La classica frase che ci troviamo a dire ogni qualvolta falliamo nell’acquisire una abilità attraverso l’esercizio. La ripetizione è il fondamento di ogni esercizio e di ogni addestramento e il servo, soprattutto, è un tipo umano che richiede un addestramento rigoroso, sia pratico che comportamentale.
Di Richesse, Chastel dice: «Lui si è sempre divertito a osservare le persone. Sapete, una volta mi disse che gli piacevano i tentativi inutili. Diceva che i tentativi inutili sono quelli che rivelano il nostro limite e ci danno il senso della nostra umanità».
E dunque è questa la storia che il romanzo racconta: i tentativi inutili di un uomo, e ripetuti proprio perché inutili, di adeguarsi a un tipo morale concepito come l’unico ideale umano possibile: quello del servo. Come ricompensa, la capacità di provare un sentimento prima ancora che esserne l’oggetto. Ma proprio il racconto che mette in scena l’ideale del servo buono e felice – Morte di Richesse, la nostra mappa – proclama nel farlo la sua sterilità: nel momento in cui il sentimento per Richesse viene dichiarato, Richesse muore. Così ne Le ripetizioni: non appena il sentimento per Lucia viene accettato e accolto con emozione autentica, delicatissima e commovente, Lucia muore. Però nel romanzo, Mozzi fa un passo oltre. Esiste un nuovo sentimento, alla fine, un sentimento nascente: e poco importa che sia sopra una tela, che sia creato dal Gas anziché da Mario, che sia una Venere un po’ curva e forse anche menomata, una Venere storpia in carrozzella; il solo fatto che il sentimento sia riuscito a nascere è un rifiuto della sterilità. Si può, nella vita, amare qualcuno, vivente, senza rinchiudersi nella gabbia della manipolazione, della sottomissione e del dominio. Mozzi ce la consegna, alla fine, come una possibilità e non ancora come una certezza: eppure, io credo, è moltissimo.
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