“I pensieri che non si possono dire”

di Walter Siti

[Questo articolo di Walter Siti è apparso nel quotidiano Domani martedì 16 febbraio 2021].

Mario (a parte le saltuarie emergenze della cronaca) è un nome generico, più nome comune che nome proprio, quasi fosse Tizio o Caio (o il proverbiale Mario Rossi). Nel romanzo Le ripetizioni (Marsilio) il protagonista Mario non ha un cognome; quando viene descritta una sua fotografia, si descrive una foto piuttosto nota del suo autore, Giulio Mozzi, scattata dal fotografo degli scrittori Basso Cannarsa; anche Mario, come Mozzi, ha pubblicato in cinque anni tre libri di racconti, anche lui vive a Padova; Mario ha lavorato come impiegato in un ufficio sindacale, ha una doppia o tripla vita, è sessualmente perverso: Mario non è Giulio Mozzi.

Le ripetizioni è un romanzo maledetto e sarà difficile perfino per i critici più strenuamente benintenzionati spremerne un “messaggio positivo”. Nulla autorizza i lettori, anche se qua e là ne avrebbero una gran voglia, a considerare semplici incubi le scene più intollerabili di sesso e violenza: stilisticamente e razionalmente godono del medesimo statuto di realtà di tutti gli altri episodi della vita di Mario e vengono descritte con la medesima esattezza realistica – la perversione, l’indifferenza, «la propria assenza da sé stesso» sono parte integrante della biografia di Mario come lo sono delle ossessioni di Mozzi. Mario sente spesso «di non essere effettivamente a contatto con il proprio tempo e il proprio spazio» e dice di sé «io non ho una storia, ho un elenco. La mia vita è insensata, come quella di tutti e di chiunque». La sua vita è talmente un elenco che Mozzi per raccontarla la spezzetta in una serie di “storie” scrupolosamente rendicontate nell’indice del libro: storia delle fototessere, storia dei viaggi in treno, storia di Viola, storia di Santiago eccetera: numerate e alternate, coi numeri che non sempre si susseguono secondo l’ordine dei numeri naturali – la storia di Mario non c’è perché è la somma di tutte e la somma non fa il totale.

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“Una scrittura-carne”

di Paolo Nelli

[Questa recensione mi è stata inviata privatamente, con permesso di pubblicazione, dall’amico Paolo Nelli].

Nella seconda metà anni Novanta, dopo essere andato a conoscerlo a una presentazione di La felicitàterrena, mi incontravo spesso con Giulio Mozzi a parlare di scrittura. Un giorno mi disse che stava provando a scrivere un romanzo e mi diede le pagine che aveva scritto. In quelle pagine si arrivava presto a scene estreme di sesso perverso, cani sgozzati. Ricordo che gli dissi che non erano pagine facili da leggere.

La scrittura dei racconti di Mozzi, forse ancor più in Questo è il giardino, era scrittura-carne. Scrittura tangibile. In questa scrittura piana e di totale concretezza, i suoi racconti si sviluppavano esaurendo. Nulla si poteva aggiungere. Nel romanzo Le ripetizioni la scrittura viene svuotata da ogni forma di decorazione stilistica e, in quanto tale, stilistica all’eccesso. Una scrittura coerente fino al paradigma tanto da diventare ipnotica e fare perdere il senso della durata. Per giocare alle analogie, qualcosa che rimanda a una Sequenza di Berio, fatta però di parole e frasi. In Le ripetizioni assistiamo all’apice di connubio scrittura e contenuto. Si assimilano, si specchiano. Il protagonista del romanzo, Mario, è un uomo svuotato. Nella scrittura non c’è alcun accorgimento da effetto seppia cinematografico che mi indichi, a me lettore, una dimensione differente tra realtà e immaginazione, tra interiorità e esteriorità.

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Vita di Mario (raccontata da lui medesimo)

di Franco Foschi

[Questa recensione mi è stata inviata privatamente, con permesso di pubblicazione, dall’amico Franco Foschi].

Chi l’ha detto che le vite, tutte le vite, non possano essere raccontate? Gli storici forse, che campano della frustrazione di non poter scrivere o descrivere tutto quel che è successo e a chi. Ma il narratore. Il narratore ha delle possibilità sconfinate, epperò è solo il narratore bravo che sa esplorarle al meglio. Che sa imbricarle l’una nell’altra, che le moltiplica da un nonnulla, che ci infioretta sopra quel che gli pare – ecco l’infinita, e un po’ spaventosa, libertà di scrivere.

Di storie, Mozzi, ne ha a bizzeffe, e sa come cucinarle. Ci ricorda che la Storia è fatta di storie, e che abbiamo sempre, incessantemente, bisogno di sentirle raccontare. Il problema è come mischiarle e farne un unicum che possa venire definito romanzo.

Come lo ha risolto, Mozzi, questo problema?

Si inizia con una evidente dichiarazione d’intenti: ventuno pagine dense, compatte, senza respiro, con la memoria come ospite invadente e che ti immobilizza. A dire ehi, amico, non credere di trovarti a scorrazzare dentro un romanzo per educande, o fatuo, leggiadro e infine rassicurante: na-na, qui ci si tormenta se necessario, si lambiscono i territori della psichiatria, e si da fastidio, non si rinuncia al grigio e al nero se necessario, non si indugia sul particolare ma si preferisce guardare direttamente giù nell’immensità dell’abisso, se necessario. Del resto Mozzi, nei suoi tanti anni di poca narrativa, ci ha introdotti a fondo ne il male naturale (il titolo è suo), per cui siamo preparati a una visione cupa, ancora una volta se necessario.

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