di Franco Foschi
[Questa recensione mi è stata inviata privatamente, con permesso di pubblicazione, dall’amico Franco Foschi].
Chi l’ha detto che le vite, tutte le vite, non possano essere raccontate? Gli storici forse, che campano della frustrazione di non poter scrivere o descrivere tutto quel che è successo e a chi. Ma il narratore. Il narratore ha delle possibilità sconfinate, epperò è solo il narratore bravo che sa esplorarle al meglio. Che sa imbricarle l’una nell’altra, che le moltiplica da un nonnulla, che ci infioretta sopra quel che gli pare – ecco l’infinita, e un po’ spaventosa, libertà di scrivere.
Di storie, Mozzi, ne ha a bizzeffe, e sa come cucinarle. Ci ricorda che la Storia è fatta di storie, e che abbiamo sempre, incessantemente, bisogno di sentirle raccontare. Il problema è come mischiarle e farne un unicum che possa venire definito romanzo.
Come lo ha risolto, Mozzi, questo problema?
Si inizia con una evidente dichiarazione d’intenti: ventuno pagine dense, compatte, senza respiro, con la memoria come ospite invadente e che ti immobilizza. A dire ehi, amico, non credere di trovarti a scorrazzare dentro un romanzo per educande, o fatuo, leggiadro e infine rassicurante: na-na, qui ci si tormenta se necessario, si lambiscono i territori della psichiatria, e si da fastidio, non si rinuncia al grigio e al nero se necessario, non si indugia sul particolare ma si preferisce guardare direttamente giù nell’immensità dell’abisso, se necessario. Del resto Mozzi, nei suoi tanti anni di poca narrativa, ci ha introdotti a fondo ne il male naturale (il titolo è suo), per cui siamo preparati a una visione cupa, ancora una volta se necessario.