Alberto Savinio, Oggetti nella foresta, 1928

Diario di scrittura

di Giulio Mozzi

[Questo articolo è apparso in Tuttolibri, supplemento del quotidiano La Stampa, nella rubrica Diario di scrittura, sabato 16 gennaio 2021. L’articolo in pdf].

Immaginate di avere una visione. Capita a tutti, suppongo. La maggior parte delle visioni che abbiamo si disperdono alla svelta; qualcuna resta. Immaginate dunque di avere una visione, che resti, e che vi faccia orrore. Vi fa orrore due volte: perché la cosa che c’è dentro vi fa orrore, e perché vi fa orrore pensare che voi, proprio voi, avete avuta quella visione lì.
Non vi dirò qui di quale visione si tratta: perché i finali, mi si dice, non si svelano.

Claudio Laudani, Discorso attorno a un sentimento nascente

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Immaginate poi di avere un amico pittore e di andare a trovarlo ogni tanto, nel bilocale dove vive, e di ogni tanto sedervi a guardarlo dipingere. L’amico potrebbe chiamarsi Claudio Laudani, per esempio, ed essere un vero pittore: forse non un grande pittore, ma sicuramente un vero pittore. E immaginate – fate ancora uno sforzo, vi prego – che un giorno l’amico, lavorando su una tavola di compensato con la tecnica del dripping, ovvero dello sgocciolamento, riesca – e voi non capirete mai come: «Con l’aiuto del caso», dice lui, ma non è possibile che il caso gli regali sistematicamente dei quadri così belli – a far uscire da un fondo scurissimo, quasi nero, una figura luminosa, dorata, aranciata: una figura che nasce, una specie di Venere del Botticelli, un qualcosa a metà tra un feto e un corpo di invalido, una figura piena di una sua stranissima e deforme ma vivissima vita.

E immaginate infine – questa è l’ultima immaginazione che vi chiedo, poi basta – di passare vent’anni della vostra vita a cercar di connettere la vostra visione, quella che vi fa tanto orrore, e la visione dell’amico. Entrambe sono vive in voi, una generata da voi, una da voi per così dire riconosciuta e accettata mentre l’amico la dipingeva.

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Cronaca di un romanzo, 5

di Giulio Mozzi

A stretto giro Edoardo Zambelli (vedi) rispose. La sua risposta fu semplice. Tu hai dei personaggi che hanno delle storie piuttosto slegate tra loro, mi disse. Prova a dividere il romanzo in parti: una parte con la storia del Gas (di Mario e il Gas), una parte con la storia di Bianca (di Mario e Bianca), una parte con la storia di Santiago (di Mario e Santiago); e poi magari una parte con la storia di tutti gli altri (il Terrorista Internazionale, il Capufficio, il generale Luigi Cadorna, eccetera). Non badare, disse Edoardo, all’ordine cronologico, visto che il tuo personaggio principale, Mario, non fa che tornare sempre sugli stessi errori, visto che vive in una specie di tempo sospeso.
Ascoltai. Eseguii. Stampai tutti gli scartafacci, sparpagliai i fogli sul tavolo della cucina, e comincia a rimescolare. Feci quattro pacchetti di fogli, secondo l’indicazione di Edoardo. Alcuni capitoli dovetti sforbiciarli, perché appartenevano in parte a una e in parte a un’altra storia. Restava fuori, com’era sempre restata fuori, come una cosa a parte, la mezza lettera – che ipoteticamente poteva essere anche indirizzata a Mario, volendo. Misi insieme il tutto, feci dei fogli con i titoli (Storia di Mario e Bianca, Storia di Mario e del Gas, eccetera), e torna in studio a fabbricare un file unico. In cima a ogni capitolo misi un numero progressivo.

Mi fece accorgere Greta, o mi accorsi da me, non mi ricordo più, che in questo modo l’arco narrativo scompariva. O meglio: avrei dovuto costruirne uno per ciascuna parte, per ciascuna storia. Allora feci il passo decisivo: i capitoli con la storia del Gas li titolai Storia del Gas, 1, Storia del Gas, 2, eccetera; quelli di Bianca Storia di Bianca, 1, eccetera. I capitoli in cui c’era Mario da solo si svolgevano tutti in treno (il primo racconto da me scritto in cui il protagonista ideale è Mario, Treni, compreso nel libro Questo è il giardino del 1993, si svolge appunto in treno), e si chiamarono Storia dei viaggi in treno, 1, eccetera. Alcuni capitoli potevano prestarsi a doppie titolazioni: così vennero fuori capitoli come La storia di Bianca, 1 (La storia dei viaggi in treno, 3), e simili.

A quel punto, potevo intrecciare le storie. A voi sembrerà una cosa elementare, anche banale, ma per me fu una vera scoperta. Non so quante volte ho compiuto operazioni simili su romanzi altrui: decine, credo. Tuttavia, lavorare sul proprio romanzo è una cosa completamente diversa. L’ho visto tante volte: ci sono autori lucidissimi su tutto, e sono pochi, e ci sono autori che hanno, per così dire, una lucidità parziale; sono lucidissimi, ma hanno delle zone di cecità. Io per quasi vent’anni non ero stato lucido quasi mai; in quel momento mi sembrò di aver trovato la lucidità.

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Cronaca di un romanzo, 4

di Giulio Mozzi

Giulio Mozzi, Le ripetizioni, Marsilio EditoriNel 2018 Greta Bertella mi chiede insistentemente di leggere gli scartafacci. “Insistentemente” è un delicato eufemismo. Resisto, resisto, e finalmente cedo. Lei legge, annota, e poi mi dice quattro cose: che il primo scartafaccio, quello che si chiama Introduzione ai comportamenti vili, è più “romanzo” del secondo; che un arco narrativo c’è, ed è legato al personaggio di Santiago; che la scelta della prima persona, da me fatta nel secondo scartafaccio, “Discorso attorno a un sentimento nascente”, le sembra sbagliata; che il capitolo che comincia con “Scrivo questo romanzo perché ho bisogno di soldi” le pare brutto e basta.

Io ascolto. Ascolto, e non faccio niente. Finché, in settembre, mi succede di sedermi e scrivere qualcosa. Per la precisione, 33.376 battute. Tutte filate, in un pomeriggio. Mi pare di averlo scritto più volte, lungo questa cronaca, “mi sono seduto e ho scritto”; il fatto è che funziona proprio così. Quando la “cosa” si forma nella mia testa, e direi in tutto il mio corpo, arriva il momento in cui semplicemente mi siedo e scrivo. Poi non è che sia “buona la prima”, per carità. Spesso torno sul testo a distanza di pochi giorni o poche ore, lo riprendo dal principio e lo amplio. A togliere ci penso casomai dopo, a distanza di tempo. Insomma: quel giorno ho scritto 33.376 battute. Ho raccontato una storia che conosco bene, e che ho anche spesso raccontata a voce, quindi non avevo precisamente un problema d’invenzione; ma quando ho finito di scrivere e mi sono alzato dalla sedia – era ormai buio, mi par di ricordare, e avevo una fame da lupo – ho pensato che era successo qualcosa.
Ho pensato, a dirla tutta: “Sono ancora capace”. Sono ancora capace, per esempio di prendere una materia narrativa di quelle che, anche a guardarle bene, promettono pochissimo, e di cavarne fuori 33.376 battute, più o meno quindici-sedici pagine di libro stampato. E sono ancora capace di nominare questo benedetto personaggio, Mario, e di rappresentarlo. Erano quasi vent’anni che non scrivevo una sola riga in cui lui comparisse come soggetto grammaticale. Eppure Mario era lì. E io ero in grado di scriverne.

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Cronaca di un romanzo, 3

di Giuio Mozzi

L’incontro con il quadro di Claudio Laudani Discorso attorno a un sentimento nascente (di cui ho raccontato qui) non fu privo di conseguenze. Da qualche tempo andavo scrivendo nel mio diario in rete (oggi perduto) delle storielle nelle quali appariva una (prima) trasfigurazione di Claudio, che chiamavo Grande artista sconosciuto (perché Claudio è secondo me un grande artista, ed è effettivamente sconosciuto). Erano delle storielle buffe – credo, spero -, comunque certamente non serie. Ma dopo aver visto quel quadro provai a scrivere qualcosa di veramente serio su Claudio (la seconda trasfigurazione). Uscirono così dei capitoli (in prima persona) che integrai a quanto era rimasto dell’Introduzione ai comportamenti vili, e intitolai il tutto Discorso attorno a un sentimento nascente. L’idea era di continuare a presentare il protagonista – che ora, come già ho detto, portava il mio nome – come un personaggio un po’ abulico, ma la cui vita veniva sfiorata da una quantità di vite straordinarie (nel bene e nel male). Ne avevo in mente, di vite straordinarie. Il primo episodio di “sfioramento” concerneva il Terrorista Internazionale. Il cui corpo – questo era il nocciolo dell’episodio – non recava nessuna traccia di ciò che egli era stato.

Questo fu il primo spostamento. Dalle “vite straordinarie” alle “vite che non lasciano traccia sui corpi di chi le porta”. Il tema mi affascinò per un po’. Nelle prime pagine del Jean Santeuil (così è intitolato, credo dai filologi, il primo tentativo di Marcel Proust di scrivere il suo romanzo) il protagonista, appunto Jean, incontra uno scrittore famoso, da lui molto ammirato: e si stupisce di trovarlo anonimo, quasi dozzinale, completamente diverso dall’artista che aveva immaginato a partire dai libri (cito a memoria e spero di non sbagliare). Così noi spesso ci stupiamo nell’incontrare persone che, per così dire, non assomigliano alla loro vita (o almeno: non lasciano trasparire quella che noi immaginiamo essere la loro vita vera). Ma la vita, in effetti, che tracce lascia sul nostro corpo? In tutti noi, credo, giace un’idea un tantino ottocentesca, in un certo senso lombrosiana (un lombrosismo rovesciato), per cui se una persona ha attraversato certe esperienze particolari, o addirittura eccezionali, o è stata capace di creare grandi opere, o di commettere grandi delitti, eccetera, di tutto ciò nel suo corpo una traccia *deve* esserci.

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Cronaca di un romanzo, 2

di Giulio Mozzi

Dicevo: “Stava per accadere un incontro importante. Molto importante”. Non mi ricordo esattamente il giorno e l’ora e il punto, e essere sinceri nemmeno l’anno (direi il 2000 o giù di lì), ma un bel giorno mi ritrovai a casa di Claudio Laudani, pittore. Lo guardavo lavorare. Claudio aveva preparato un fondo scuro, petrolio, su una tavola di compensato; e in quel momento ci stava facendo sgocciolare sopra degli altri colori: rosso, giallo, non so più se altro. Faceva colare il colore, muoveva la tavola, faceva andare il colore di qua e di là. Ora, io sono sicuro che se facessi qualcosa del genere riuscirei al massimo a ottenere un insieme di macchie – o, più probabilmente, un pastrocchio confusamente monocromo. Invece Claudio, con questa tecnica – lui la chiama “dripping”, appunto sgocciolamento – riesce a fare cose che a me sembrano meravigliose.

Quando apparve la figura che vedete qui sotto io uscii di testa. Intanto bloccai Claudio, che stava per fare altri interventi sulla tavola. Gli feci anche delle minacce, credo. Poi cominciai a parlare, e parlai – con Claudio che stava fermo ad ascoltare – per almeno mezz’ora. Poi me ne andai, tutto scombussolato. Qualche tempo dopo (giorni? mesi? e chi si ricorda?) Gualtiero, che di tanto in tanto fotografava i lavori di Claudio, mi fece vedere la fotografia di quella tavola lì; e mi disse che il titolo era Discorso attorno a un sentimento nascente. “Bel titolo”, dissi, “ma è strano: Claudio non dà mai ai suoi lavori dei titoli così”. “Lui dice che gliel’hai dato tu”. Da parte mia, nessun ricordo: e non ho motivi per dubitare della memoria di Claudio o di Gualtiero.

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Cronaca di un romanzo, 1

di Giulio Mozzi

Chiunque si metta in testa di raccontare il modo e la maniera in cui ha scritto il proprio romanzo deve innanzitutto prendere atto dell’esistenza del Romanzo di un romanzo, il libro nel quale Thomas Mann raccontò la genesi del Doctor Faustus: il che significa, prima di tutto, prendere atto della distanza enorme che c’è tra il proprio lavoro e il lavoro di una delle più eminenti personalità della letteratura (e della moralità, direi) occidentale del Novecento. Quindi metto le mani avanti: no, non ho nessuna intenzione di immaginare di essere più di quel che sono – un pover’uomo, come tutti -, e non pretendo nemmeno di raccontare una storia esemplare. Più banalmente: ho sfiancato per più di vent’anni le mie amiche e i miei amici – e i lettori e le lettrici di vibrisse – con la storia di questo romanzo che avevo lì, che di tanto in tanto dichiaravo “in corso d’opera” o “in traiettoria d’arrivo” o addirittura “praticamente finito”, e che regolarmente svaniva dietro ai miei “non sono soddisfatto”, “non mi piace”, “non so come fare a chiuderlo”, e tutte quelle cose là. E quindi offro la mia cronachetta a mo’ di risarcimento per la pazienza che ho chiesta, e di ringraziamento per la pazienza che ho ricevuta. Dunque comincio.

Era il 1998. Avevo appena pubblicato presso Mondadori Il male naturale. Il libro aveva avuto uno strano destino: tiepide lodi da parte della critica, qualche sostanziale stroncatura (un recensore, addirittura, attaccandosi al fatto che in calce a ogni racconto erano indicate le date di inizio e fine di scrittura, lo bollò senz’altro come libro raccogliticcio), e a un certo punto la bomba. Mi chiama una giornalista dell’Adn Kronos, mi dice che un parlamentare ha fatto un’interrogazione parlamentare sul mio libro, e minaccia una denuncia con richiesta di sequestro. Tutto era legato a un racconto, molto breve, due paginette, intitolato Amore, nel quale si descriveva un rapporto sessuale tra un adulto e un bambino (Geno Pampaloni lo definì “crudele e freddo, ma privo di compiacimenti stilistici”). Ci fu un po’ di polverone, ci fu una riunione con qualche strillo in Mondadori, e tutto finì lì (ci fu anche, mesi dopo, anche la risposta all’interrogazione parlamentare, per bocca dell’allora presidente del Consiglio dei ministri Massimo D’Alema: ma ovviamente la cosa non interessava più a nessuno). Non so se effettivamente la denuncia fu mai presentata. Tutta la storia è raccontata in appendice alla nuova edizione de Il male naturale, uscita presso Laurana nel 2012, con una postfazione di Demetrio Paolin.

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