“Fondamentalmente, un romanzo che parla d’amore”

di Alessandra Nobile

[Questa nota è stata pubblicata da Alessandra Nobile nel suo profilo Facebook. Vedi l’originale].

Le ripetizioni, il primo romanzo di Giulio Mozzi, già autore di numerose opere di racconti e noto insegnante di scrittura, è un libro complesso e interessantissimo. Credo che questa sia un’opera talmente ricca di significati da essere capace di far risuonare in modo diverso l’immaginario di ciascun lettore. E, come per un prisma, non è possibile coglierne contemporaneamente tutte le facce, ma è auspicabile, a mio parere, cercare di mettere bene a fuoco ciò che ognuno riesce a coglierne.

Per me che ho la fissa della coppia, che ho il pallino di studiare le dinamiche di coppia, cosa che per anni ho fatto come psicoanalista, il romanzo di Giulio Mozzi è, fondamentalmente, un romanzo che parla d’amore. O meglio, un romanzo che parla delle difficoltà che l’individuo può incontrare, lungo il suo percorso di vita, a far nascere e a rendere concreto il suo sentimento per un’altra persona, e ad avvicinarsi, attraverso quel sentimento, a sé stesso.

Mario, il protagonista, scrive e edita romanzi, ha fatto della parola, della parola letta e della parola scritta, il suo modo di relazionarsi alla vita. Mario è, come tutti noi, alla ricerca di sé e, come tutti noi, è curioso e allo stesso tempo terrorizzato da quello che potrebbe trovare. La paura più grande di Mario è quella di pronunciarsi, di pronunciarsi in prima persona. Cerca relazioni che lo confermino nella passività, relazioni dove sia l’altro a decidere, a pronunciarsi, ad ordinare, e dove a lui spetti soltanto eseguire, senza farsi troppe domande, anzi, senza farsene alcuna.

È così la relazione omosessuale con il giovane Santiago, basata su una violenza tale da far inorridire, da far pensare di trovarsi di fronte al male assoluto. Una relazione dove l’importante, che si domini o si sia dominati, è non esserci mai lì, presenti, assieme all’altro.

Ed è nell’annullamento di sé nell’altro che pare, a un certo punto, aver luogo la vera beatitudine, per Mario: una beatitudine che nasconde il terrore di fare i conti con sé stesso.

È così anche la relazione con la donna che Mario intende sposare: Viola. Relazione che sembra viaggiare sul tacito accordo, da parte di entrambi, di non entrare in profondità, di non toccare mai, l’un l’altro, le rispettive chiusure, le rispettive paure, e ferite.

Ma poi c’è Bianca, la donna di cui Mario è innamorato. Bianca che ha avuto una figlia che forse è di Mario, o forse no. Bianca con la quale, negli anni, Mario instaura un continuo tira e molla, senza mai riuscire a raggiungerla davvero. Bianca che è anche lei fragile, molto fragile, che vorrebbe Mario, ma che poi, proprio come lui, si sottrae. Con Bianca, solo con lei, Mario si avvicina più volte alla possibilità di metter mano a sé stesso, di pronunciarsi in prima persona, di “esserci” finalmente, per come lui è, con le sue fragilità, con i suoi limiti, con la sua umanità. Perché Bianca non si accontenta, e chiede a Mario con forza di “esserci” lì assieme a lei, peccato che poi sia lei stessa a scappare. Anche questo è un rapporto difficile, un rapporto dove entrambi sembrano avere lo stesso problema: il terrore di entrare in intimità. Ma è questo terrore che Mario e Bianca, incontrandosi, cominciano a toccare con mano, sfiorando più e più volte la possibilità di percepirlo, e di affrontarlo, insieme. Ed è proprio quando si accosta a quel nucleo incandescente che Mario si spaventa, si blocca, ricomincia, e ripete. Ma anche il ripetere può servire ad avvicinarlo, piano piano, a quel nucleo.

Emblematici, a questo proposito, sono i pensieri che attraversano Mario, dopo aver fatto l’amore con Bianca, e dopo anni di separazione:

Forse un giorno apriremo gli occhi, Bianca, e vivremo nel mondo reale con un sogno dietro gli occhi. Il sogno sarà come una doppia vista che ci farà vedere l’interno delle cose, al di là della bruttezza con la quale gli uomini così spesso ricoprono sé stessi e le cose del mondo. Sarà tutto bellissimo, e non sarà niente di speciale: solo essere vivi, liberi, amanti. Ti offro l’amore che sono in grado di fabbricare con le mie mani. Poi gli viene in mente Viola, il treno da prendere, la chiave da lasciare nella casella della posta. È tutto finito con Bianca, pensa, tutto.

L’amore somiglia più a un percorso a ostacoli che a un prato fiorito. E questo libro sa descriverne gli ostacoli con una lucidità e una maestria che difficilmente ho trovato, altrove. Via le idealizzazioni, via gli inganni, finalmente possiamo vedere fino a che punto un sentimento d’amore possa essere, talvolta, terrorizzante.

Perché l’amore, in fondo, non è che una forte spinta a metter mano a sé stessi. E non è vero che con l’altro, con l’amato, ci si senta immortali, al contrario. L’amore è un territorio fecondo per mettere mano, piano piano, anche dolorosamente, alla propria fragilità e alla propria mortalità, assieme all’altro che si scopre essere, proprio come noi, fragile e mortale.
Ma è proprio questo che Mario teme. Mario è già stato innamorato, e ha conosciuto il dolore profondo per la perdita improvvisa di Lucia, la ragazza amata. Mario non ha mai fatto i conti fino in fondo con questa perdita (sempre che sia mai possibile farci i conti davvero, con una perdita). Se Mario dovesse pronunciarsi in prima persona, con Bianca, forse ritroverebbe lo sguardo di Lucia, ma ritroverebbe anche quella parte di sé che ha seppellito tanto tempo prima, assieme a lei. Ritroverebbe, o meglio riscoprirebbe, Mario, soprattutto quell’amore, limitato, mortale, stupendo: quell’amore che lui è in grado, che è sempre stato in grado, di fabbricare con le sue mani. Quell’amore che è, prima di tutto, intimità.

Il mio Maestro di psicoanalisi, Michele Minolli, nel testo: Che aspetti ad andartene? L’amore nella cultura iper-moderna, scriveva:

Nella coppia viene anche a crearsi un intimo unico che oltrepassa la dimensione fisica. La conoscenza del partner va oltre l’intimo legato alla sessualità per abbracciare l’intera complessità dell’altro. Non è una conoscenza razionale o verbalizzabile, ma effettiva, concreta e reale. È la conoscenza profonda a creare l’intimo. A volte viene condivisa, ma non è necessario. A volte viene vissuta, ed è tutto quello che conta.

Il libro di Giulio Mozzi si chiude con una visione angosciante e terribile che non rivelerò, perché non è bene svelare il finale di un libro. Dico solo che, come ogni visione angosciante e terribile, non va assolutizzata, ma guardata e compresa nel contesto che la circonda. Il capitolo che precede quella visione è, non a caso, una conversazione tra Mario e il suo amico Gas, il Grande Artista Sconosciuto, riguardo ad una delle opere di Gas: Discorso attorno a un sentimento nascente. A proposito di quest’opera, Mario dice:

A me sembra un quadro bellissimo, ma a parte questo, vedi, è un quadro che mi riempie di felicità, perché mi pare che dica che tu, benché sia stato prigioniero per anni e anni, una possibilità di sentimento ce l’hai, ce l’hai perché dalla tua mente, anzi no, non dalla tua mente, dalle tue mani, è venuta fuori questa presenza meravigliosa qui…

Possiamo pensare che più ci avviciniamo a quel sentimento nascente, a quel contatto pieno con noi stessi, e più abbiamo paura: ed è lì che arrivano le visioni angoscianti, per distoglierci nuovamente da quel contatto. Credo che la vita sia una continua danza, fatta di passi avanti e passi indietro su questa strada. E che l’amore, terreno privilegiato per un contatto profondo con sé stessi, sia uno dei modi per aiutarci ad avanzare su questa strada, nonostante la paura.

La bellezza di questo libro, però, è esser fatto di tanti significati, di tante strade. Io ho scelto di percorrerne una: quella che più mi si confà.

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