di Giulio Mozzi
Nel 2018 Greta Bertella mi chiede insistentemente di leggere gli scartafacci. “Insistentemente” è un delicato eufemismo. Resisto, resisto, e finalmente cedo. Lei legge, annota, e poi mi dice quattro cose: che il primo scartafaccio, quello che si chiama Introduzione ai comportamenti vili, è più “romanzo” del secondo; che un arco narrativo c’è, ed è legato al personaggio di Santiago; che la scelta della prima persona, da me fatta nel secondo scartafaccio, “Discorso attorno a un sentimento nascente”, le sembra sbagliata; che il capitolo che comincia con “Scrivo questo romanzo perché ho bisogno di soldi” le pare brutto e basta.
Io ascolto. Ascolto, e non faccio niente. Finché, in settembre, mi succede di sedermi e scrivere qualcosa. Per la precisione, 33.376 battute. Tutte filate, in un pomeriggio. Mi pare di averlo scritto più volte, lungo questa cronaca, “mi sono seduto e ho scritto”; il fatto è che funziona proprio così. Quando la “cosa” si forma nella mia testa, e direi in tutto il mio corpo, arriva il momento in cui semplicemente mi siedo e scrivo. Poi non è che sia “buona la prima”, per carità. Spesso torno sul testo a distanza di pochi giorni o poche ore, lo riprendo dal principio e lo amplio. A togliere ci penso casomai dopo, a distanza di tempo. Insomma: quel giorno ho scritto 33.376 battute. Ho raccontato una storia che conosco bene, e che ho anche spesso raccontata a voce, quindi non avevo precisamente un problema d’invenzione; ma quando ho finito di scrivere e mi sono alzato dalla sedia – era ormai buio, mi par di ricordare, e avevo una fame da lupo – ho pensato che era successo qualcosa.
Ho pensato, a dirla tutta: “Sono ancora capace”. Sono ancora capace, per esempio di prendere una materia narrativa di quelle che, anche a guardarle bene, promettono pochissimo, e di cavarne fuori 33.376 battute, più o meno quindici-sedici pagine di libro stampato. E sono ancora capace di nominare questo benedetto personaggio, Mario, e di rappresentarlo. Erano quasi vent’anni che non scrivevo una sola riga in cui lui comparisse come soggetto grammaticale. Eppure Mario era lì. E io ero in grado di scriverne.
Naturalmente queste 33.376 battute non avevano niente che fare con le storie del romanzo. Costituivano un possibile capitolo introduttivo, o un episodio deviante. Mettevano in scena un rapporto tra narratore e personaggio che negli scartafacci non c’era. Avevano una lingua intricatissima – il che non mi dispiaceva. E ponevano un tema: il tema dell’incertezza della memoria, quindi dell’incertezza della realtà.
Da lì in poi… Da lì in poi niente. Quel nuovo capitolo restò lì, messo in cima agli altri. Non feci altro, ancora per mesi. Non cominciai il lavoro di unificazione degli scartafacci, di trasporto della prima persona in terza persona, eccetera. No. Opponevo ancora resistenza, e mica poca.
Ma nel frattempo mi ero inventato un’altra cosa. In giugno 2018 avevo proposto a Patricia Chendi di Sonzogno di fare un libro: quello che sarà poi l’Oracolo manuale per scrittrici e scrittori. Patricia accettò. Io mi portai in giro per mesi un foglio con i circa duecento “motti” sui quali avrei dovuto costruire il libro. Finché arrivò il febbraio del 2019 e mi si fece notare che, se volevamo fare il libro, avrei dovuto consegnare il testo. “Certamente”, dissi: e in due giorni lo scrissi. L’Oracolo uscì in aprile 2019 e, devo dire, tutto sommato fu accolto con simpatia. La cosa mi confortò. Era un’altra prova del fatto che mi ricordavo come si faceva a scrivere. Ero riuscito perfino a inventarmi un libro.
A quel punto apparve Franco Vaccari.
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Ah, ma dimenticavo: di mezzo c’era stata l’America. Nel 2011 la Chicago Review aveva dedicato un numero all’attualità letteraria italiana. A rappresentare la prosa invitarono Laura Pugno, Dario Voltolini, Giorgio Vasta, Antonio Franchini, Nicola Lagioia, Gianluigi Ricuperati; e me (e per la poesia, tra gli altri, anche l’amica Giovanna Frene). Spedii un capitolo del secondo scartafaccio, il Discorso attorno a un sentimento nascente. Lo accettarono. Tradusse Elizabeth Harris, che già stava traducendo Questo è il giardino, il mio libro d’esordio. Uscimmo nel numero di primavera 2011.
E così, dieci anni prima di essere finito e pubblicato in lingua italiana, il romanzo attraversava l’oceano. Misteriose, le vie. Davvero misteriose.
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A quel punto apparve Franco Vaccari, dicevo. Nel 1972, alla Biennale di Venezia, in una delle sale curate dall’allora giovane critico d’arte Renato Barilli, un allora giovane Franco Vaccari – ufficialmente un fotografo, in realtà un artista che andrà sempre molto oltre la fotografia – piazzò una cabina Photomatic per le fototessere, di quelle che si trovavano e si trovano nelle stazioni ferroviarie, nei centri commerciali e così via. Su una parete fece mettere una scritta: “Lascia su queste pareti una traccia fotografica del tuo passaggio”. Il giorno dell’inaugurazione, l’8 giugno, Vaccari entrò nella Photomatic, si fece fotografare (quattro pose diverse su una striscia di carta), e incollò la striscia alla parete. Alla fine della Biennale sulle pareti c’erano circa 6.000 strisce di fotografie incollate.
L’opera – o l’operazione, come preferite – di Vaccari fu una di quelle che suscitarono più interesse. Se ne parlò in tutto il mondo. A tutta velocità Barilli e Vaccari produssero un volume, intitolato Esposizione in tempo reale n. 4 (che è il vero titolo dell’opera o operazione), con alcuni testi e una scelta delle fotografie. Il primo dicembre 2018 acquistai presso Micamera Bookstore una copia del volume (mi costò un occhio). Non avevo un’idea precisa. La faccenda mi affascinava. Di quest’opera o operazione di Vaccari sapevo da tempo, ma sfogliare e risfogliare il volume (con l’occhio rimastomi) fu un’ avventura molto coinvolgente. E cominciai a pensare che forse il mio protagonista – il mio Mario, che aveva così tanti problemi di memoria – poteva essere passato per la Biennale di Venezia nel 1972 (magari in visita con la scuola), poteva aver messo le 200 lire richieste nella fessura della Photomatic, poteva aver incollato le sue fotografie alla parete, poteva aver lasciato su quella parete una traccia fotografica del proprio passatto. E poteva aver desiderato, in un qualche momento della sua vita successiva, rivedere quei quattro scatti.
Cercai di prendere contatto con Franco Vaccari. Mobilitai amici e conoscenti. Andai a trovare Renato Barilli (che conosco dal 1995), che fu generoso di racconti su quei fatti. Guido Guidi e William Guerrieri ci misero una parola buona. Ma Vaccari fu garbatissimamente riluttante: adesso no, magari più in là; ci sentiamo il mese prossimo; in questo momento sono molto occupato, porti pazienza; e così via. Fui tentato di andargli a suonare il campanello di casa: ma perché romper l’anima a un pover’uomo per qualcosa che ha fatto nel 1972, e senza avere neanche un’idea precisa delle domande da fargli? Dopo aver perso un po’ di tempo in questo modo, decisi che mi sarei immaginato un Franco Vaccari a mio uso e consumo. Mi sedetti, e scrissi velocemente – come al solito – tre capitoli. Per precauzione, feci crescere al “mio” Franco Vaccari una barba che lui, stando alle fotografie e alle testimonianze, mai portò. La trasfigurazione di una persona in personaggio passa attraverso minimi dettagli, anche banali, che servono a marcare la differenza: esiste un Franco Vaccari reale, che è una cosa, ed esiste un personaggio di romanzo che si chiama Franco Vaccari, che checché se ne dica è tutt’altra cosa. Comperai altri libri. Setacciai la rete, ascoltai varie sue conferenze, raccolsi aneddoti. Grazie a un documentario intravidi l’interno dell’abitazione di Vaccari. E feci di lui un personaggio burbero – a me i personaggi burberi vengono benissimo – e saggio.
Fui tentato di inventarmi un nome per lui, come l’avevo inventato per il Terrorista Internazionale, per il Giornalista Comunista, per il Capufficio, per il Grande Artista Sconosciuto. Ma avrei dovuto, per occultare per bene la fonte della mia invenzione, inventarmi un’opera altrettanto bella e affascinante dell’Esposizione in tempo reale n. 4. E, mi dispiace, ma fin là non ci arrivo.
Avevo dunque, a quel punto, i vecchi materiali, ancora praticamente non toccati; il capitolo introduttivo di 33.376 battute; i capitoli di Franco Vaccari (altre 39 mila battute circa); e la sensazione che potevo farcela. Ma non sapevo, tutti quei materiali, non avevo idea di come organizzarli. Decisi di chiedere aiuto a Edoardo Zambelli. Edoardo Zambelli, per chi non lo sapesse, è un eccellente scrittore, secondo me eccellentissimo; i suoi romanzi sono pubblicati da Laurana e io trovo folle, ripeto folle, che lui non goda di una stima universale. Comunque: avevo bisogno di un consiglio sul montaggio, e sentivo che Edoardo era, poteva essere, la persona giusta.
Gli mandai il tutto. A stretto giro Edoardo rispose.
Continua.
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