Cronaca di un romanzo, 1

di Giulio Mozzi

Chiunque si metta in testa di raccontare il modo e la maniera in cui ha scritto il proprio romanzo deve innanzitutto prendere atto dell’esistenza del Romanzo di un romanzo, il libro nel quale Thomas Mann raccontò la genesi del Doctor Faustus: il che significa, prima di tutto, prendere atto della distanza enorme che c’è tra il proprio lavoro e il lavoro di una delle più eminenti personalità della letteratura (e della moralità, direi) occidentale del Novecento. Quindi metto le mani avanti: no, non ho nessuna intenzione di immaginare di essere più di quel che sono – un pover’uomo, come tutti -, e non pretendo nemmeno di raccontare una storia esemplare. Più banalmente: ho sfiancato per più di vent’anni le mie amiche e i miei amici – e i lettori e le lettrici di vibrisse – con la storia di questo romanzo che avevo lì, che di tanto in tanto dichiaravo “in corso d’opera” o “in traiettoria d’arrivo” o addirittura “praticamente finito”, e che regolarmente svaniva dietro ai miei “non sono soddisfatto”, “non mi piace”, “non so come fare a chiuderlo”, e tutte quelle cose là. E quindi offro la mia cronachetta a mo’ di risarcimento per la pazienza che ho chiesta, e di ringraziamento per la pazienza che ho ricevuta. Dunque comincio.

Era il 1998. Avevo appena pubblicato presso Mondadori Il male naturale. Il libro aveva avuto uno strano destino: tiepide lodi da parte della critica, qualche sostanziale stroncatura (un recensore, addirittura, attaccandosi al fatto che in calce a ogni racconto erano indicate le date di inizio e fine di scrittura, lo bollò senz’altro come libro raccogliticcio), e a un certo punto la bomba. Mi chiama una giornalista dell’Adn Kronos, mi dice che un parlamentare ha fatto un’interrogazione parlamentare sul mio libro, e minaccia una denuncia con richiesta di sequestro. Tutto era legato a un racconto, molto breve, due paginette, intitolato Amore, nel quale si descriveva un rapporto sessuale tra un adulto e un bambino (Geno Pampaloni lo definì “crudele e freddo, ma privo di compiacimenti stilistici”). Ci fu un po’ di polverone, ci fu una riunione con qualche strillo in Mondadori, e tutto finì lì (ci fu anche, mesi dopo, anche la risposta all’interrogazione parlamentare, per bocca dell’allora presidente del Consiglio dei ministri Massimo D’Alema: ma ovviamente la cosa non interessava più a nessuno). Non so se effettivamente la denuncia fu mai presentata. Tutta la storia è raccontata in appendice alla nuova edizione de Il male naturale, uscita presso Laurana nel 2012, con una postfazione di Demetrio Paolin.

Ma che cosa c’era, in questo libro? Come scrisse Marco Rovelli in Nazione indiana, c’era “la carne che muore, la carne che desidera nutrimento e ri/fusione, la carne mutilata che pure, anch’essa, desidera il piacere. C’è, sempre, un corpo [che] si confronta con se stesso, con la distanza da se stesso, con la mancanza che lo sforma. Ma tutto appare in chiave oggettuale, quasi clinica: tutto viene semplicemente mostrato, come osservato dall’occhio di un biologo, o di un angelo. Un occhio che scruta, in una sorta di assoluta aderenza, profondato nella loro ‘datità’, direbbe il filosofo”.

Proprio nel 1998 cominciai a scrivere una cosa che, nella mia mente, consideravo un potenziale romanzo. Avevo un titolo: Introduzione ai comportamenti vili. E avevo un’idea: scrivere un testo – una “prosa”, dicevo – composto in buona misura da incollaggi di altri testi o da manipolazioni di altri testi. La storia doveva essere la storia di Mario, il mio alter ego già “usato” in alcuni racconti, e della sua dipendenza da Santiago, che pure aveva fatto qualche apparizione, di sfuggita, in qualche racconto. Santiago doveva guidare Mario a pratiche erotiche estreme. Mario doveva anche avere il progetto di sposare una donna tranquilla, Viola, una donna con la quale vivere una vita normale: il che a Santiago andava benissimo. Non andava bene a Santiago, invece, che Mario rispondesse alla richiesta di aiuto di Bianca, donna da lui amata – con molte difficoltà: avevo già scritto dei racconti con alcune storie di Mario e Bianca – negli anni precedenti. Anche Bianca era capace di esercitare un domnio su Mario, Santiago lo capiva bene, ed era quindi un’avversaria; Viola era invece un tranquillante, un modo per tenere buono Mario.

Composi uno scartafaccio di circa centoventi cartelle, almeno metà delle quali erano frutto di operazioni collagistico-manipolatorie. Le vicende che ho appena dette erano appena accennate: già scritta – e transiterà quasi identica nella versione finale del testo – era la scena finale, nella quale tutto precipita. Feci leggere lo scartafaccio in Mondadori. Una persona di grande esperienza editoriale mi rispose (al telefono; e stentava a trattenere le lacrime) che no, un libro con una tale qualità di violenza non avrebbe mai osato pubblicarlo. Avevo (e ho) molta stima di quella persona; pertanto mi fermai. Forse stavo esagerando. Forse stavo cedendo al puro e semplice gusto dell’esagerazione e della provocazione. Forse ero fuori strada. Forse mi stavo facendo del male. Forse stavo facendo qualcosa che avrebbe davvero potuto fare del male.

Lo scartafaccio rimase uno scartafaccio.

L’idea del libro / collage si concretizzò poco più tardi, in tutt’altra forma, nel libro Fiction (Einaudi 2001, poi Laurana 2017 col titolo Fiction 2.0: dove effettivamente si mischiavano testi attribuiti a questo o a quell’autore, nonché estratti da giornali e così via; ma in realtà era tutto fatto in casa).

* * *

Mi domandai all’epoca, com’è ovvio: ma da dove viene tutta questa violenza? Confesso che non so rispondere. Potrei dare delle risposte immaginarie, ma non varrebbero nulla: sarebbero al massimo dei duplicati del romanzo stesso (al massimo; più probabilmente dei surrogati). Posso notare invece come i personaggi della storia abbozzata (ripeto: niente più che abbozzata) fossero in parte a me ben noti: Mario, una sorta di trasparente alter ego (ma su cosa sia un alter ego, bisognerà intendersi); Bianca, la donna dalla quale Mario non può stare lontano e alla quale non può stare accanto; Santiago, ovvero “il male assoluto”, come ricordo di averlo più volte definito, negli anni, parlando con gli amici: erano già tutti apparsi nelle mie storie.

A proposito di Bianca. In Fiction 2.0, in calce a un racconto nel quale appunto di Bianca si trattava, compariva una lunga nota (a p. 115) che cominciava così:

Nella produzione narrativa di Giulio Mozzi il personaggio denominato ‘Bianca’ ha una sua storia ben riconoscibile. Compare per la prima volta nel racconto Treni, nel libro d’esordio Questo è il giardino (1993): a dire il vero in questo testo il nome ‘Bianca’ non compare, ma vi compare il nome ‘Mario’, in testi successivi accoppiato a ‘Bianca’ (finché, come in una reticente ammissione, non viene sostituito da ‘Giulio’ o dalla prima personad, e il legame tra ‘Mario’ e l’innominata è esattamente quello che nei racconti e nei libri successivi si ritroverà tra ‘Mario’ e ‘Bianca’ (o tra ‘Giulio’ e ‘Bianca’, o tra ‘io’ e ‘Bianca’). Non sembra necessario riassumere il racconto, basti osservare che nella frase conclusiva ‘Mario’ invita sé stesso “ad allontanarsi dalla causa dei suoi mali, dalla ripetizione delle cose sbagliate”.

Ancora più esplicito il finale di Roma, in La felicità terrena (1996), che narrativamente sembra essere nient’altro che la pura e semplice continuazione di Treni. Il protagonista è ancora ‘Mario’, il nome ‘Bianca’ ancora non compare, ma va notato che in una successiva edizione (non conforme alla prima) dell’opera, il nome ‘Mario’ è sostituito da ‘Giulio’: ‘Mario [Giulio] non vuole più. Non ha più voglia di continuare. L’attaccamento a quello che non può essere è male, l’attaccamento a quello che non c’è più è male, l’attaccamento a quello che si è allontanato per sempre è male’.

Il nome ‘Bianca’, che retrospettivamente può essere legittimamente attribuito alle innominate co-protagoniste assenti di ‘Treni’ e ‘Roma’, compare finalmente, e dà addirittura il titolo al racconto, in Bianca, nella raccolta del 1998 Il male naturale. E, per non perdere l’abitudine, leggiamo anche qui la frase finale: “Il telefono suona quasi immediatamente. Mario lo sapeva, Mario sa quello che sta per succedere, Mario sa che quello che sta per succedere si ripeterà molte altre volte, Mario sa che quello che sta per succedere gli farà male, Mario sa che quello che sta per succedere potrebbe non succedere, Mario sa che perché non succeda quello che sta per succedere basterebbe non rispondere al telefono, Mario sa che basterebbe allontanare la mano che per istinto già si è mossa, rifugiarsi in cucina, lasciare che gli squilli finiscano, lasciar morire Bianca”.

Su che cosa sia un alter ego, dicevo prima, bisognerà intendersi. Per me Mario è stato, se così si può dire, la proiezione della parte più patologica di me. Non vi è nulla di autobiografico in Mario, né in quello dei racconti né in quello del romanzo. Per carità: come fanno tutti, ho adoperato nelle narrazioni anche fatti e circostanze tolti dalla mia vita; ma “autobiografia” è un’altra cosa, è un diverso patto con il lettore. Mi permetto un esempio volgare: in una narrazione esplicitamente autobiografica potrei raccontare che i pomodori gratinati mi piacciono molto; ma se in un racconto con protagonista o personaggio Mario gli attribuissi una passione, o una preferenza, o al contrario un disgusto per i pomodori gratinati, ciò avrebbe forse un qualche significato? In un capitolo del romanzo Mario va a Roma, prende una camera in un albergo (del quale non si dice il nome, ma è un albergo nel quale ho alloggiato), ha un problema con la carta d’identità (ho avuto un problema simile, in tutt’altra situazione: all’aeroporto di Londra), va a fare colazione in un certo bar (che ho spesso frequentato, per la colazione, con un’amica). Tutto ciò significa qualcosa? O significa solo che, per praticità, invece che inventarmi situazioni di sana pianta, preferisco attingere al magazzino della memoria?

Quanto all’apparire di ‘Giulio’ al posto di ‘Mario’ in alcune riedizioni dei miei lavori, devo dire: si è trattato di un errore. Non di una “reticente ammissione”, come dice la nota di Fiction 2.0, ma di un vero e proprio errore. C’è stato un tempo nel quale la tentazione di identificare me stesso (Giulio) con la parte più patologica di me (Mario) era fortissimo. E ho creduto, scrivendo ‘Giulio’ anziché ‘Mario’, di – addirittura! – dire *la verità*. Niente di più falso.

Anche al romanzo è capitato qualcosa del genere.

* * *

Se Mario e Bianca mi apparivano abbastanza chiaramente come proiezioni di parti, o di possibilità, di me stesso – più esattamente: la relazione tra Mario e Bianca mi appariva abbastanza chiaramente come proiezione di un aspetto, o di una possibilità, di relazione tra me e un’altra persona -, continuavano a farmi problema Santiago – il giovinetto che ha su Mario un dominio sessuale – e Viola – la donna che, stando a quanto scritto nell’originario scartafaccio, Mario avrebbeo voluto o dovuto sposare.

Che Santiago fosse semplicemente un’immagine più demonizzata di Bianca, mi pareva chiaro. In un racconto incluso in “Il male naturale” (1998) c’è un personaggio strano, che non tornerà mai in nessun altro racconto (il che, per me, è inusuale): “la ragazza-ragazzo”. Non si tratta di un androgino né, propriamente, di una ragazza dall’aria mascolina; piuttosto di una ragazza in cui i caratteri sessuali secondari sono poco pronunciati. Forse di una specie di axolotl. E’ possibile che dalla ragazza-ragazzo si siano sviluppati da una parte Bianca, e dall’altra Santiago: opposti (perché Bianca alla fin fine, in tutti i racconti in cui appare, appare come un bene imprendibile, ma un bene; mentre Santiago è il male assoluto) e non so se complementari, comunque inscindibili.

Ma Viola? Viola era, e restava, un personaggio vuoto. Un non personaggio. Era, semplicemente, una donna che Mario sceglie (o dalla quale, secondo suo solito, si fa scegliere) perché è comoda, ci sta bene insieme, lo stabilizza, gli dà un piacere moderato ma gratuito – mentre il piacere che viene da Bianca o da Santiago ha un prezzo altissimo. Una donna per bene, Viola, se non addirittura perbene. E non la vedevo. Un puro nome. Ci ho messo anni per accorgermi che ‘Viola’ è un colore, come ‘Bianca’; e perché Bianca si chiami Bianca, spero sia chiaro: Bianca non esiste se non nell’immaginazione di Mario, Mario scrive Bianca sul corpo di una qualsiasi donna. Viola è il colore del lutto e forse (questa cosa mi viene in mente solo adesso) su Viola Mario non può scrivere nulla, perché è già morta, perché non c’è. All’epoca, comunque, avevo solo vaghe, vaghissime idee.

Nel 2001 – all’incirca – ripresi in mano lo scartafaccio del 1998. Raschiai via Santiago e quasi tutte le parti di testo frutto di collage. Decisi – grave errore!, dico oggi – di “prendermi la responsabilità di Mario”, e quindi di transitare alla prima persona. Peggio: il protagonista prese il mio nome. Rimase gran poco. Forse mandai un po’ avanti la storia di Mario e Bianca: Bianca riappare dopo anni, ha bisogno di aiuto, Mario accorre, non può fare nulla, il suo intervento è vano.

Ma stava per accadere un incontro importante. Molto importante.

* * *

“Un libro è il prodotto di un io diverso da quello che si manifesta nelle nostre abitudini, nella vita sociale, nei nostri vizi.” (Marcel Proust, Contre Sainte-Beuve; cito dall’edizione nei Tascabili Einaudi, p. 16, tr. di Paolo Serini e Mariolina Bertini). Più semplicemente, più direttamente di così, la cosa non si poteva dirla. E allora, a che pro sto qui a raccontarvi di come ho messo insieme questo romanzo, delle circostanze in cui è nato, degli eventi che ne hanno favorita o rallentata l’esecuzione, delle false piste che ho seguite e di quelle forse vere che a lungo ho accuratamente evitate, eccetera? Sto forse perdendo tempo, vi sto forse facendo perdere tempo? (Ma non siete tenute/i a leggermi, per fortuna).

In verità non vi sto raccontando nulla della mia vita, credo, ma solo qualcosa del movimento della mia immaginazione. E se, come ho fatto stamattina, mi metto a riflettere sul fatto che i miei personaggi sono proiezioni di parti di me, non lo faccio per ricondurli alla mia esistenza mondana; bensì per far capire che riuscire a mettere insieme tutti quei personaggi, e altre cose, dentro una *forma*, non mi è servito che per tentar di intravedere quell’ “io diverso” che, per quanto diverso, comunque è nato in me. “Un tale io, se vogliamo cercare di comprenderlo, possiamo attingerlo solo nel profondo di noi stessi, sforzandoci di ricrearlo in noi”, dice la frase di Proust successiva a quella già citata. E aggiunge ancora: “Nulla può esimerci da tale sforzo interiore”.

Certo: quell’ “io diverso” che è nato in me, ora abita nell’*opera formata*, nel romanzo. (O così spero: l’opera potrebbe anche essere fallita). Queste succinte cronache di redazione non restituiscono lui, non parlano di lui, ma cercano di descrivere l’itinerario della mia mente verso di lui. A che pro? Forse, dico per me, per serrare la presa, per essere sicuro che quell’ “io diverso”, collocato nell’opera, ora non se ne vada più. Nei due sensi: che resti lì, e lì si conservi, e lì sia visibile e visitabile; e che non possa più uscirne, che non venga a tirarmi i piedi di notte. Perché, ovviamente, non è che questo “io diverso” per essere “diverso” sia migliore di me, o di piacevole compagnia, o buono per la mia vita. Permettetemi questo dubbio.

Quanto al “profondo di noi stessi”, immagino (non nel senso di “supporre”: ma proprio di “immaginare”) che Proust intendesse con queste parole-cliché nominare, eufemisticamente, quella parte di noi stessi della quale non sappiamo nulla, che non possiamo conoscere per esperienza diretta, ma che si rivela solo e soltanto nei suoi effetti. Quando osserviamo noi stessi trovandoci diversi da quel che credevamo di essere, quando osserviamo le conseguenze da noi imprevedute delle nostre azioni, quando proviamo un senso di estraneità a noi stessi, quando ci sembra di uscire da noi stessi, quando una parte di noi esce da noi e va ad abitare in un’opera – allora ci sembra di vederla e conoscerla, quella parte di noi stessi, ma non è così: possiamo solo fare inferenze sul suo conto, a partire da ciò che osserviamo, da ciò che abbiamo fatto mentre ci pareva di non essere noi, o di non essere in noi, dalle conseguenze delle nostre azioni, infine dalla nostra eventuale opera.

Questo benedetto romanzo, dal momento in cui ho sentito di aver finito di scriverlo – un momento lungo: l’8 luglio scorso ho cominciato a capire che davvero stavo finendo, il 24 luglio ho pensato che avevo finito, il 30 luglio ho decretato di aver finito e ho spedito il tutto all’editore – non mi dice più niente. Qualche amica e qualche amico hanno avuto la benevolenza di leggerlo, e a quanto pare ne hanno ricavato qualcosa. Per me ora questo romanzo è semplicemente una cosa. Una cosa che era dentro di me, e adesso è fuori di me: è dunque osservabile, e forse un giorno potrò capirla, comprenderla come se fosse davvero “il profondo di me stesso”.

Niente, era una divagazione.

(Continua)

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